L'unione fa la forza? "A volte"

La presenza degli altri limita o favorisce la prestazione? Le risposte della psicologia sociale, dai primi esperimenti a fine '800 al concetto di brainstorming

Una questione fondamentale nella psicologia sociale: la presenza di altre persone influisce sulla nostra prestazione? Il concetto di facilitazione sociale indaga come la presenza di altre persone influenzi le prestazioni individuali. Questo tema venne esplorato per la prima volta da Norman Triplett nel 1898, quando notò che i ciclisti tendevano a migliorare le proprie performance quando gareggiavano in gruppo piuttosto che da soli. Triplett approfondì la questione in laboratorio, chiedendo ai partecipanti (principalmente ragazzi) di avvolgere il mulinello di una canna da pesca. I risultati mostrarono che i soggetti lavoravano più velocemente in presenza di un co-attore, indicando un effetto positivo della competizione o presenza sociale.

Studi successivi, come quello di Floyd Allport (1924), cercarono di analizzare se l’effetto fosse dovuto alla competizione o alla semplice presenza di altre persone. Allport propose ai partecipanti compiti cognitivi di varia complessità, dai calcoli semplici all’elaborazione di argomentazioni logiche. Scoprì che la presenza di altri migliorava le prestazioni nei compiti semplici, come la moltiplicazione, ma le ostacolava in quelli complessi. Questo fenomeno, denominato "facilitazione sociale", mostrava un effetto differente a seconda della complessità del compito.

Quando "batte il cuore"

Negli anni '60, il teorico Robert Zajonc propose una spiegazione fisiologica: la presenza di altre persone aumenterebbe il livello di attivazione o "arousal" degli individui. Questo stato di arousal migliorava la performance nei compiti semplici e automatizzati, poiché facilitava le risposte apprese o abituali, ma peggiorava i compiti complessi e cognitivi, che richiedevano concentrazione e riflessione. Zajonc osservò questa asimmetria anche in studi su specie animali diverse, concludendo che la reazione alla presenza di altri fosse una legge universale del comportamento sociale.

Tuttavia, le ricerche successive evidenziarono alcuni limiti nella teoria di Zajonc. Cottrell (1972) propose che l’aumento dell’attivazione non derivasse solo dalla presenza fisica di altri, ma dal timore di essere valutati. Guerin e Innes (1982), invece, suggerirono che l’attivazione dipendesse dalla difficoltà di controllare la presenza di un altro individuo potenzialmente imprevedibile. Baron (1986) ipotizzò che l’aumento dell’attivazione fosse causato dalla necessità di dividersi tra il compito e l’attenzione verso l’altro.

A queste teorie si aggiunsero studi sul compito di Stroop, condotti da Monteil e Huguet (1999), i quali scoprirono che la presenza di un’altra persona, soprattutto se considerata competente, poteva migliorare la concentrazione dei partecipanti e ridurre le interferenze semantiche, come nel caso delle risposte di denominazione dei colori, che andavano contro la previsione di Zajonc.

Vai avanti tu che a me scappa da ridere...

Un altro esperimento rilevante è quello di Max Ringelmann (1913), che studiò la prestazione fisica nei gruppi. Chiese a studenti di agraria di tirare una corda collegata a un dinamometro, sia individualmente sia in gruppo. Osservò che la forza esercitata dai gruppi non era proporzionale al numero di partecipanti: mentre un individuo da solo tirava con una forza di 85 kg, un gruppo di sette persone raggiungeva solo 450 kg, non i 595 kg attesi. Questo effetto, noto come "pigrizia sociale" o "Ringelmann effect", suggeriva che l'efficienza individuale diminuisce quando la responsabilità è condivisa.

Un contributo importante nella ricerca sui compiti di gruppo venne da Marjorie Shaw (1932), che analizzò la risoluzione di problemi logici. Divise i partecipanti in gruppi e individui, osservando che i gruppi risolvevano più problemi degli individui ma impiegavano leggermente più tempo. Marquart (1955) confermò questi risultati utilizzando gruppi ipotetici (aggregati statistici) e dimostrando che, in media, i gruppi reali ottenevano risultati simili, ma leggermente migliori, rispetto ai gruppi statistici in compiti verbali.

Il brainstorming si fa meglio... da soli!

Infine, il brainstorming, tecnica ideata per stimolare la creatività, sembrava più efficace quando svolto prima individualmente e poi discusso in gruppo. Taylor, Berry e Block (1958) confrontarono gruppi reali e aggregati statistici nei compiti di brainstorming e scoprirono che i gruppi reali producevano meno idee, e di qualità inferiore, rispetto agli aggregati statistici. Questo risultato, confermato da ulteriori studi, suggerì che il brainstorming fosse più efficace quando fatto prima in privato, per poi condividere e valutare le idee in gruppo.

Questi studi mettono in luce la complessità della dinamica di gruppo e il ruolo della facilitazione sociale: la presenza di altri può essere sia un fattore di miglioramento, come nei compiti semplici o competitivi, sia di ostacolo, come nei compiti complessi o creativi.

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