Dagli istituti alle comunità familiari: la deistituzionalizzazione in Italia
La pratica dell’istituzionalizzazione per i diversi e i "senza famiglia", ovvero la gestione affidata a grandi strutture residenziali come gli orfanotri, ha una lunga storia in tutto il mondo occidentale. Per secoli è stata una risposta e modalità diffusa finché, alla metà del secolo scorso, una serie di fattori scientifici e socio culturali hanno contribuito all'emergere di una nuova sensibilità sul tema, permettendo l'avvio di un lungo processo di deistituzionalizzazione.
L’istituto, cioè la struttura socio-educativa residenziale di tipo assistenziale di grosse dimensioni con alto numero di accolti, si caratterizzava per:
- estraneità alle decisioni sul proprio percorso
- autoreferenzialità
- spersonalizzazione
- mancanza di progetto educativo personalizzato
- vita quotidiana istituzionalizzata
- atemporalità
- rapporti con lo staff non tra "persone" ma tra "categorie sociali"
Le differenze delle nuove realtà comunitarie rispetto agli istituti sono di ordine strutturale (rapporti fra il gruppo e il contesto amministrativo-istituzionale), e di ordine dinamico (rapporti fra diversi attori nel gruppo). Da sottolineare che la deistituzionalizzazione non consiste solo nella chiusura dei luoghi con molti ospiti ma è un modo di vivere i rapporti all’interno di qualsiasi struttura, sia grande o piccola che sia.
Gli odierni presidi residenziali socio-assistenziali alternativi per minori possono essere classificati in:
- comunità di pronta accoglienza
- comunità di tipo familiare
- comunità educativa
Dal "Grande internamento" all'attivismo
Il Seicento è passato alla storia come il secolo del Grande Internamento durante il quale i vari governi hanno dato vita a numerose istituzioni per la "cura" dei diversi. Una risposta quasi sempre repressiva e generica. È assodato che tale risposta abbia comportato reclusione, ammassamento, spersonalizzazione.
Nel corso dell’Ottocento si è assistito a un’evoluzione e specializzazione delle prestazioni (ospedali, manicomi, case di riposo, orfanotrofi…). Relativamente ai minori, farli crescere in un ambiente familiare non era ancora considerata una priorità.
In Italia, il decreto regio del 1926 identificava cinque tipologie di istituti:
- congregazioni di carità
- istituti per la protezione e l’assistenza alla maternità
- istituti per la prima infanzia
- istituti per l’assistenza e la protezione fisica e morale
- istituti per i minorenni anormali
Il decreto racomandava che i minori di regola fossero collocati prioritariamente presso famiglie e, quando non fosse possibile, chesi provvedesse a un collocamento in piccoli gruppi. L'istituto era ammesso ma considerato l'ultima ratio. Nonostante ciò, la quantità di minori, la semplicità di utilizzo del modello degli istituti, e una cultura non propriamente puerocentrica hanno fatto sì che gli istituti proliferassero.
È agli inizi del ‘900 che si comincia a percepire qualche vento di rinnovamento grazie alla corrente dell’attivismo, rappresentato tra gli altri dalle figure di John Dewey, Ellen Key, Maria Montessori, e J. Korkzak. Alla fine degli anni '40, nell'immediato dopoguerra, cominciano ad affiorare le prime ipotesi di superamento del modello dell’istituzionalizzazione.
Alcuni primi tentativi di realizzare prassi educative in strutture a dimensione più umana, come i "Focolari", o i Villaggi SOS fondati dall'austriaco Herman Gmeimer, furono realizzati solo nell'immediato dopoguerra.
Le prime riflessioni
Le comunità familiare, che andranno progressivamente a sostituire il modello dell'istituto, vengono definite con più precisione dall’Unesco nel 1948 come “organizzazioni di educazione e rieducazione a carattere permanente basate sulla partecipazione attiva dei minori”. Nello stesso anno, la Costituzione italiana attribuiva agli organi di Stato il mandato di garantire a ogni cittadino le condizioni per il pieno sviluppo della personalità.
Ma chi erano i ricoverati? Si possono distinguere tre grandi categorie: gli orfani (di guerra, di maestri, ecc…), minori appartenenti a famiglie povere e infine gli abbandonati. In totale negli anni cinquanta del secolo scorso erano quasi 200'000 minori ricoverati in istituti.
Nei primi anni ’50 la situazione drammatica del dopoguerra porta il Parlamento italiano a promuovere numerose ricerche sul tema della miseria e dei mezzi per combatterla. A proposito degli istituti, si denuncia il sovraffollamento, la trascuratezza verso gli affetti e si sottolinea la necessità di un ambiente familiare.
Nel 1954 e nel 1958 due Conferenze nazionali sui problemi dell’assistenza pubblica dell’infanzia e dell’adolescenza, hanno contribuito, pur non approndando a risultati pratici, a ribadire l’importanza del nucleo familiare.
Negli anni ’60 le politiche pubbliche di vari Paesi cominciarono a orientarsi verso il modello istituzionale del welfare state, ovvero un sistema di politiche sociali dotato di apertura universalistica. L'attenzione si sposta dalle metodologie professionali di intervento educativo e sociale ai servizi sociali a dimensioni locali rivolte a tutti i cittadini.
Il Programma per lo sviluppo economico per il quinquennio 1966-1979 prevedeva l’’istituzione della Unità Sanitaria locale.
Una legge del 1967 riaffermava la diretta responsabilità familiare nella cura dei figli. Veniva introdotta anche l'adozione speciale o legittimante cui si riconosceva al minore abbandonato il diritto a un'altra famiglia.
Negli anni '70 il numero di minori in istituti si dimezza da 200'000 a 100'000.
Nel 1971 viene approvato il Piano quinquennale per l’istituzione degli asili nido e si tiene a Milano la Conferenza mondiale sull’adozione e l’affidamento familiare dove i delegati italiani insistono per un cambiamento più radicale della politica sociale sul tema, non limitandosi ai sussidi alla povertà su cui invece puntavano i colleghi di altri Paesi.
Il Progetto 80 del Ministero del Bilancio e della programmazione economica affrontava direttamente il tema degli istituti affermando che “l’azione assistenziale deve assumere l’aspetto di una vera e propria organizzazione di servizi sociali”. Favorire centri diurni alle istituzioni di ricovero. Urgenza di provvedere alla personalizzazione dei servizi.
Una cultura che cambia
Nel secondo dopoguerra, come detto, cresce l’attenzione verso il bambino e la consapevolezza delle conseguenze negative del processo di istituzionalizzazione, gratie anche alle molte ricerche di quelgi anni sulla nocività e i meccanismi che si instaurano in questo tipo di organizzazioni.
J. Aaubry nel 1955 pubblica uno studio condotto in vari Paesi dove denuncia la nocività degli istituti mentre J. Bowlby, in una ricerca per l'OMS realizzata nel 1957, sottolinea l'importanza dei primi anni di vita per la salute mentale e identifica la separazione dalla madre un “fattore eziologico della delinquenza”.
Goffman nel 1968 pubblica lo studio di successo Asylums. Le istituzioni totali, dove vengono delineate 5 categorie:
- a tutela di incapaci non pericolosi (orfanotrofi)
- tutela di incapaci pericolosi (cliniche pischiatriche)
- segreganti pericolosi intenzionali (carcere)
- per lo svolgimento di determintae attività (esercito)
- staccate dal mondo (monasteri)
Nello stesso anno, Basaglia pubblica L’istituzione negata (1968) dove denuncia il carattere violento dei manicomi. La legge che porta il suo nome e che condusse alla chiusura dei manicomin in Italia venne approvata nel 1978.
“La definizione della sindrome ha assunto ormai il peso di un giudizio di valore” (Franco Basaglia)
Anche il filosofo e sociologo francese Michel Faucoult analiza in quegli anni le istituzioni totali, nello specifico le prigioni, definendo tra le loro caratteristiche: l'uso ssessivo della disciplina; il controllo delle attività; le punizioni. Lo psichiatra Thomas Szasz, poi, denuncia fermamemente la disumanizzazione che avviene nelle strutture psichiatriche.
L'uomo nasce in catene, e la sfida della vita è liberarsi da esse (Thomas Szasz)
Periodo di contestazione nel mondo e di richieste di cambiamento. Mistificatorio etichettare il diverso, esigenza di analizzare contesti strutturali. Radicale la posizione di Ivan Illich: “Bisogna descolarizzare non solo le istituzioni ma l’ethos della società”.
Verso la deistituzionalizzazione
Una serie di leggi hanno contribuito al processo di deistituzionalizzazione:
- la Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori (1983), che regolamenta l'affido familiare, afferma il prevalente interesse del minore
- nel 1991 avviene la ratifica da parte dell’Italia della Convenzione sui diritti del fanciullo dell’ONU-
- è del 2000 la Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali che prevede di portare aiuto alle famiglie con interventi che non conducano allo sradicamento dal proprio ambiente
- nel 2004 il Documento per un Piano di interventi per la chiusura degli istituti per minori presentato dall’Osservatorio nazionale perl’infanzia e l’adolescenza
Dai 200'000 ricoverati degli anni '50, si è passati a fine anni 70 a 10'000, scesi poi a 50'000 nel 1990 e 2'633 nel 2003. Nel 2013 erano ancora in attività 215 istituti.