L'accoglienza dei minori fuori famiglia in Italia

Le origini della comunità educativa, dal dopoguerra ad oggi

Trovatelli, esposti, abbandonati, derelitti, orfanelli, discoli, devianti… sono alcuni degli appellativi a lungo utilizzati per identificare un'ampia fetta di infanzia e di adolescenza che almeno fino alla metà del 900 viveva all'interno dei grandi istituti assistenziali italiani dove spesso giungeva in quanto priva di un nucleo familiare in grado di assolvere ai compiti di cura e di educazione. Attualmente i termini elencati sono stati inglobati sotto la denominazione di “fuori famiglia”.

Le spersonalizzati, affollate strutture residenziali hanno ceduto il posto a realtà di stampo comunitario improntate sulla riproduzione di un contesto di vita simile a quello familiare. Tra i fattori che hanno sostenuto tale cambiamento: 1) il riconoscimento del bisogno di significativi legami familiari per una sana crescita psicofisica del minore e 2) la consapevolezza sancita anche sul piano normativo che il suo prevalente interesse deve essere sempre tenuto in considerazione nelle decisioni che lo riguardano.

L'istituto dei Martinitt in via Pitteri a Milano negli anni trenta del XX secolo,

Nel panorama italiano di rinascita democratica del secondo dopoguerra, gli istituti, che erano la soluzione più adottata, iniziarono a essere posti sotto le lente d'ingrandimento da parte di esponenti del mondo politico e intellettuale i quali, diversamente dal passato, non si soffermavano tanto sull’allontanamento di minori potenzialmente devianti quanto sui piccoli ospiti come soggetti da proteggere.

Tale atteggiamento trovava riscontro nei principi sanciti dalla Costituzione repubblicana che negli articoli 30 e 31 riconosce la necessità di tutela dell'infanzia e della gioventù oltre che della maternità.

Durante la Prima conferenza nazionale sui problemi dell'assistenza pubblica all'infanzia e all'adolescenza (1954) fu posto sotto accusa l'aspetto casermatico degli istituti alla cui promozione contribuiva l'alto numero di ricoverati per struttura. Al tempo si stimava che il 70% circa dei minori istituzionalizzati fossero collocati in realtà residenziali con una capienza maggiore di 50 posti

Ma è nella Seconda conferenza nazionale (1955) dove avviene una ferma condanna agli istituti evidenziando le numerose problematiche:

- Le ampie camerate non consentivano la necessaria intimità né lo sviluppo del senso del bello
- azione educativa Mirante più alla massa che all'individuo
- impossibilità di costituire rapporti affettivi personali
- ragazzi inetti alla socializzazione una volta dimessi dalla struttura

Alla luce di ciò la conferenza auspico che gli istituti venissero ordinati in modo da riprodurre il più possibile l'ambiente familiare.

Diverse ricerche avevano dimostrato l'influsso fondamentale delle figure parentali su un lineare sviluppo psichico del bambino (tra le più importanti sicuramente quelle di Spitz e Bowlby) ma nonostante gli allarmi lanciati, nel 1958 un’analisi della Amministrazione per le Attività Assistenziali Italiane e Internazionali evidenziò una forte persistenza delle pratiche di ricovero istituzionali con un incremento degli istituti che erano aumentati in dieci anni a oltre 4'000. L’AAI riconosceva però anche le difficoltà per un cambio di rotta di ordine culturale e strutturale.

L’inerzia del sistema sociale nel sostenere una riforma dell’assistenza ai minori fuori famiglia perdurò per buona parte degli anni 60 nonostante alcune buone idee. E l’unico intervento che registro effettivi riscontri fu la legge del 1967 introduttiva dell'adozione speciale o legittimante secondo cui l'accoglienza del minore un nuovo nucleo familiare non doveva più essere a vantaggio dell'adulto in ordine a questioni patrimoniali o assistenziali ma funzionali alle esigenze di cura del ragazzo.

Un più marcato processo di rinnovamento delle tradizionali prassi assistenziali fu invece avviato tra la fine degli anni 60 e soprattutto negli anni 70. Tra i fattori: le forti denunce agli istituti pervenute da note voci del mondo intellettuale europeo (Goffman, Basagli, Erikson), ma anche quelle di magistrati minorili (Meucci, Battistacci) e le tensioni riformatrici del Sessantotto.

Oltre l’istituto

Fu necessario attendere sino al 1983 per un riferimento legislativo nazionale di regolamentazione dell'emergente processo di deistituzionalizzazione nel ambito dell'infanzia e della gioventù fuori famiglia: una legge intervenne a disciplinare l'adozione e l'affidamento dei minori ed esordiva con la dichiarazione che “il minore ha diritto di essere educato nell'ambito della propria famiglia”.

In tal senso, la legge riconosceva esplicitamente ufficialmente le esperienze residenziali alternative all'istituto che si erano diffuse a decine negli anni Sessanta in Piemonte, Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna.

Un tentativo di delineare un quadro più preciso della situazione del tempo è stato operato da Maurizio e Mariella Peirone. Tra le differenti iniziative individuate:

-          focolari: sorti nell’immediato dopoguerra e particolarmente all’avanguardia, spazi comunitari destinati alla cura e rieducazione di piccoli gruppi di minori ritenuti irregolari nella condotta e nel carattere

-          Le casa-famiglia o gruppi famiglia sono comunità educativo assistenziali che furono non di rado criticate in quanto alla revisione degli ambienti spesso mancava l'accompagnamento di un'adeguata riprogrammazione della proposta assistenziale

-          i gruppi appartamento si riferiscono alle esperienze di comunità organizzate in larga misura dall'ente pubblico in normali locali abitativi a partire da fine anni 60 e implementate specialmente in Lombardia e in Emilia Romagna

-          le comunità alloggio erano realtà gestite sia dal pubblico che dal sociale caratterizzate da una stretta collaborazione con i servizi sociali territoriali e dalla presenza di figure educative professionali

Alcune realtà particolarmente eccezionali e di difficile inquadramento:

-          L'esperienza nel dopo guerra di Nomadelfia e delle “mamme per vocazione” di don Zeno Saltini

-          Il villaggio Belvedere di Reggio Emilia realizzato negli anni 60 da Ermanno Dossetti

-          Le Boys towns di monsignor Carroll Abbing

-          I Villaggi SOS dei bambini

Nonostante il diffondersi delle esperienze comunitarie e il loro inquadramento legislativo, negli anni ottanta il processo di deistituzionalizzazione non fu accompagnato da indicazioni chiare, pertanto esso si sviluppò secondo tempi diversi da regione a regione. Solo dalla fine degli anni 90 e più compiutamente nei due decenni successivi siamo arrivati a un accordo fra le logiche locali e le politiche statali

Un decreto legislativo del 1989 regolamentava una serie di disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni elencando i criteri a cui si sarebbe dovuta attenere una realtà residenziale di stampo comunitario. Tra questi se ti ritenevano importanto

- dimensioni piccole di massimo 10 unità
- organizzazione definita di “tipo familiare”, con utenza eterogenea evitando di ghettizzare i minori sottoposti a procedimento penale
- garantire l'individualizzazione dell'intervento sul piano educativo
- presenza di operatori professionisti nelle varie discipline
- collaborazione con i servizi del territorio

Nel 1997 La Conferenza permanente per i rapporti tra Stato Regioni e province autonome sistematizza le diverse realtà di accoglienza distinguendole in quattro categorie

- comunità di pronta accoglienza
- comunità di tipo familiare
- comunità educative
- istituti

Gli anni ’90 si erano aperti sotto i migliori auspici a favore della tutela di bambini e adolescenti fuori famiglia: la Convention on the Rights of the Child approvata dall’Organizzazione delle Nazioni unite a New York nel 1989 e ratificata dallo stato italiano nel 1991 aveva riconosciuto non solo il diritto a una famiglia per ogni minore ma anche posto in luce che il suo prevalente interesse doveva essere sempre posto al centro delle azioni in cui era coinvolto.

Vanno poi ricordati altri importanti tasselli a favore dei minori:

Nel 1997 sono state istituite:

- la Commissione parlamentare per l'infanzia con compiti di indirizzo e controllo sulle concrete attuazioni degli accordi
- l'Osservatorio nazionale per l'infanzia e l'adolescenza
- il Centro nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza
- un Fondo nazionale per l'infanzia e l'adolescenza

 

Nel 2000 la legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali comprendeva interventi di sostegno per i minori tramite il sostegno al nucleo familiare di origine e l'inserimento presso famiglie o strutture di accoglienza di tipo familiare.

Con il Nomenclatore interregionale degli interventi e servizi sociali elaborato nel 2009 e nel 2013, dal Coordinamento tecnico interregionale per le politiche sociali e dal Centro interregionale dei sistemi informativi geografici e statistici si è compiuto un più deciso intervento nell'ambito della classificazione:

Le strutture residenziali per minori:

- comunità familiari per minori
- comunità socio educative
- alloggio ad alta autonomia
- servizi di accoglienza per bambino o genitore
- strutture di pronta accoglienza per minori
- comunità multiutenza
- comunità educativo e psicologica

Al termine del 2014 i bambini e gli adolescenti accolti nei servizi residenziali erano 12.400 a cui si affiancavano ulteriore 14.020 minori in affidamento familiare. Il 2,6 per mille. A fine del 2015 le comunità operative erano 3'352, contro le 3'192 dell’anno prima. Circa un bambino su tre a fine 2014 era di una nazionalità straniera, il doppio rispetto al 1998. Circa la metà avevano tra i 15 e i 17 anni. Quasi nel 60% dei casi arrivavano in comunità a seguito di un provvedimento del Tribunale dei minorenni. 

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